La Direttiva "Empowering consumers for the green transition": la comunicazione ambientale certificata e i rischi per le imprese

La Direttiva "Empowering consumers for the green transition": la comunicazione ambientale certificata e i rischi per le imprese

La sostenibilità rappresenta oggi un driver di scelta del prodotto, e a fronte di una overdose di rivendicazioni ambientali, la Direttiva europea “Empowering” impone che la comunicazione ambientale sia certificata, ovvero che ogni asserzione che possa avere un impatto (anche sociale) sull’ambiente sia supportata da un marchio di sostenibilità o da un sistema di certificazione riconosciuti a livello europeo. In caso contrario, essa rischia di essere generica e dunque censurabile, e l’impresa che la utilizza destinataria di pesanti sanzioni amministrative e penali. Gli elevanti standard di veridicità e di trasparenza che le imprese sono chiamate oggi a garantire a tutela dei consumatori richiedono pertanto l’implementazione di mirate strategie di comunicazione, e anche di protocolli (interni ed esterni) di verifica della sostenibilità, con l’ausilio di consulenti legali e di comunicazione.

 

1. La sostenibilità quale tecnica di marketing. Qualche numero. 

Le scelte di acquisto dei consumatori, e più in generale, le preferenze del pubblico, sono oggi influenzate anche dai canoni di rispetto e sostegno ambientale che l’impresa (e, di riflesso, il prodotto o il servizio) vantano. 

“Sostenibilità” è pertanto diventata una delle parole maggiormente utilizzate nella comunicazione aziendale e pubblicitaria; e il richiamo al positivo impatto ambientale di un prodotto o di un servizio una vera e propria tecnica di marketing

In questo contesto, purtroppo, l’ambientalismo di facciata è diventato all’ordine del giorno. 

Basti dire che nel 2021 la Commissione Europea, in collaborazione con le autorità nazionali di tutela dei consumatori, ha condotto un’indagine sui siti web appartenenti ai settori moda, cosmetici ed elettrodomestici, per verificare la correttezza dei vanti ambientali ivi presenti, dalla quale è risultato che nel 37% dei casi, l’affermazione ambientale conteneva formulazioni vaghe e generiche (quali, ad esempio, “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile”, e “cosciente”) impiegate al solo scopo di suscitare nei consumatori l’impressione di un prodotto senza impatto negativo per l’ambiente; e nel 59% dei casi che non erano stati resi facilmente accessibili gli elementi a sostegno delle affermazioni ambientali. 

Insomma, nel 42% dei casi le autorità nazionali hanno concluso nel senso di una affermazione falsa o ingannevole e potenzialmente configurante una pratica commerciale scorretta

Anche l’Ufficio per la proprietà intellettuale dell’Unione Europea nel mese di aprile di quest’anno ha condotto uno studio da cui è emerso che dal 1996 al 2021 la percentuale di registrazione dei c.d. green-trademark è passata dal 4% al 12% del totale dei marchi registrati, con un picco di circa 21.281 marchi per il solo anno 2021. E anche nel 2022, nonostante un’apparente arresto, a fronte di una generale diminuzione delle registrazioni, i marchi green risultano comunque in fase di incremento.       

Nell’anno 2022, l’Italia si qualificava al terzo posto tra gli Stuti UE, con un totale di circa 1.621 green-trademark depositati presso l’EUIPO. La maggiore concentrazione di questa categoria di marchi si colloca nel settore “Energy”, subito seguito da quello “Pollution control” e “Climate change”, in diretta connessione con i messaggi di risparmio energetico e di controllo delle immissioni ambientali, ormai presenti nelle più svariate campagne pubblicitarie. 


 

2. L’obiettivo della Direttiva “Empowering Consumers for the green transition”. I punti cardine.

Per contrastare tale overdose di rivendicazioni ambientali, in attesa della approvazione definitiva della “Green Claim Directive” da parte del Consiglio UE (per il momento approvata soltanto in via provvisoria dal Parlamento UE in data 12 marzo 2024), è stata intanto adottata a livello europeo la Direttiva “Empowering consumers for the green transition” (Direttiva UE 024/825), che dovrà essere dai vari Stati membri recepita entro il 27 marzo 2026, e applicata in via definitiva a far data dal 27 settembre 2026, il cui obiettivo è “contribuire … al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori” (Art. 1), per il tramite di una comunicazione commerciale c.d. certificata”. 

A tal fine, la Direttiva ha recepito l’evoluzione storico-sociale dei concetti di tutela ambientale e sostenibilità, sempre più inclusivi di fattori sociali e di elementi attinenti ad un modello di economia  circolare, tanto da prescrivere espressamente che “i consumatori non dovrebbero essere ingannati sulle caratteristiche ambientali o sociali di un prodotto o sugli aspetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità e riciclabilità, mediante la presentazione generale di un prodotto”, ponendo così le basi per reprimere non soltanto condotte strettamente di greenwashing, ma anche di socialwashing.


I punti cardine della Direttiva possono essere così sintetizzati: 

  • Introduzione della definizione di:
    • asserzione ambientale”, da intendersi come “nel contesto di una comunicazione commerciale, qualsiasi messaggio o rappresentazione avente carattere non obbligatorio a norma del diritto dell’Unione o nazionale, in qualsiasi forma, compresi testi e rappresentazioni figurative, grafiche o simboliche, quali marchi, nomi di marche, nomi di società o nomi di prodotti, che asserisce o implica che un dato prodotto, categoria di prodotto, marca o operatore economico ha un impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure è meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti, categorie di prodotto, marche o operatori economici oppure ha migliorato il proprio impatto nel corso del tempo” e
    • asserzione ambientale generica”, ovvero ogni dichiarazione scritta o orale “non inclusa in un marchio di sostenibilità e la cui specificazione non è fornita in termini chiari ed evidenti tramite lo stesso mezzo di comunicazione”. 


Resta dunque ferma la circostanza che i claims ambientali devono essere chiari, semplici, immediatamente comprensibili anche se relativi ad aspetti tecnici, e verificabili nei dati di riferimento. 

Tuttavia, la Direttiva compie uno step in più, nel senso che ogni asserzione ambientale è considerata generica, e dunque censurabile quale pratica commerciale ingannevole, se non inserita in un contesto di certificazione.

 

Espressioni quali “rispettoso dell’ambiente”, “amico della natura”, “biodegradabile”, ecc., pertanto, non potranno più essere utilizzate sic et simpliciter

  • Valorizzazione dei marchi di sostenibilità e dei sistemi di certificazione quali strumenti di autenticazione delle comunicazioni, dove per:
    • marchio di sostenibilità” si intende “qualsiasi marchio di fiducia, marchio di qualità o equivalente, pubblico o privato, avente carattere volontario, che mira a distinguere o promuovere un prodotto, un processo o un’impresa con riferimento alle sue caratteristiche ambientali o sociali o entrambe” (Esempi: EMAS/ECOLABEL);
    • sistema di certificazione” è un “sistema di verifica da parte di terzi che certifica che un prodotto, un processo, o un’impresa è conforme a determinati requisiti, che consente l’uso di un corrispondente marchio di sostenibilità”.

Per conseguenza, in combinato con il punto a) precedente, la Direttiva impone che l’asserzione ambientale sia “autenticata” da un marchio di sostenibilità o un sistema di certificazione, o ancora da una c.d. “eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali” (ad es., ECOLABEL) per non essere considerata “generica”. 

Inoltre, nella comunicazione dovrà essere chiaro (e dunque non ingannevole) l’aspetto specifico del prodotto, del processo o del servizio supportato dal marchio di sostenibilità o dal sistema di certificazione: così, ad esempio, se il marchio di sostenibilità o il certificato non contempla l’aspetto della biodegradabilità in relazione al mio prodotto/processo, non posso esporre vanti di tal natura. In altre parole, non sarà possibile estendere la portata delle certificazioni ottenute

Ad oggi, non è ancora disponibile una lista certa dei marchi di certificazione riconosciuti a livello europeo, né è stato chiarito se vi sarà un periodo transitorio in cui sarà possibile continuare a ricorrere ai sistemi di certificazione ad oggi esistenti, in particolare alle c.d. Eco-Etichette. Aspetti, questi, che verosimilmente saranno specificati in fase di recepimento nazionale della Direttiva. Sarà dunque importante tenere monitorata la questione. 

 

  • Ampliamento del concetto di ingannevolezza, che viene ad includere oltre agli aspetti ambientali anche quelli sociali, e pure quelli attinenti ai parametri di durabilità, riparabilità, riciclabilità del prodotto, l’assistenza post-vendita, ecc

Nello specifico, la Direttiva prevede che devono considerarsi ingannevoli quelle pratiche commerciali che forniscono informazioni false o non veritiere o che sono idonee ad indurre in inganno relative a «le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, le caratteristiche ambientali o sociali, gli accessori, gli aspetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto».

 

  • Ampliamento della lista di condotte considerate sleali in re ipsa.

Ad esempio: 

  • Esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su di un sistema di certificazione o non è stabilità da autorità pubbliche;
  • Formulare un’asserzione ambientale generica per la quale l’operatore economico non è in grado di dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti tali asserzione;
  • Formulare un’asserzione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso o l’attività dell’operatore economico nel suo complesso quando riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o uno specifico elemento dell’attività dell’operatore;
  • Formulazione di un’asserzione ambientale futura senza indicazione di impegni ed obiettivi  chiari e precisi;
  • Omissioni ambientali. 


3. Considerazioni conclusive e strategie da adottare. 

La Direttiva, dunque, impone elevati standard di veridicità e trasparenza

Le asserzioni ambientali, infatti, rischiano di venir considerate generiche, e dunque ingannevoli, se non inserite in un contesto “certificato” attraverso marchi di sostenibilità  e sistemi di certificazioni ecologica (o attestazioni di eccellenza ambientale). 

A seguito del suo (definitivo) recepimento, pertanto, l’intero impianto comunicativo dell’impresa  dovrà essere attentamente valutato, al fine di evitare di veicolare vanti, e più in generale, messaggi, ambientali che il mio prodotto/processo/servizio non ha, oppure ha soltanto in parte in relazione ad un aspetto specifico. 

L’ampliamento del concetto di ingannevolezza, che oggi ricomprende profili anche di natura sociale (quali la parità di trattamento e di opportunità, la diversità di genere e il benessere degli animali), e attinenti alla circolarità del prodotto, inoltre, richiede all’operatore sia una maggiore sensibilità commerciale nel contestualizzare il prodotto/processo/servizio, sia – e ancor più importante – una preventiva analisi (anche legale) delle condizioni di offerta al pubblico del prodotto/servizio, specie in relazione al trattamento post-vendita. 

Tutto ciò per evitare non soltanto di attuare una delle condotte considerate sleali in sé, la cui lista, come visto, è stata ampliata dalla Direttiva, ma soprattutto di incorrere in (pesanti) sanzioni di natura amministrativa da parte dell’Autorità preposte alla tutela del consumatore (in primis, l’AGCM), ma anche di natura penale, qualora la pratica di greenwashing integri una condotta anche penalmente rilevante, come ad esempio la frode in commercio (art. 515 c.p.). 

Non dimentichiamo, poi, che la Direttiva dovrà venir letta in combinato disposto sia con le altre disposizioni europee rilevanti, quali quella della Direttiva UE 2024/1760, la c.d. “Corporate Sustainability Due Diligence Directive”, che impone alle imprese strutturate di elaborare un sistema di verifica (rectius: di Due Diligence) sulla propria “catena di attività”: il che significa che i profili di sostenibilità di cui l’impresa dovrà accertarsi sono non soltanto i suoi, ma anche quelli dei sui partners commerciali, oppure quelle del Regolamento sulla progettazione ecocompatibile di prodotti sostenibili ufficialmente entrato in vigore il 28 luglio 2024; sia con le norme nazionali rilevanti in materia, a cominciare dal Codice del Consumo e dal Codice dell’Autodisciplina pubblicitaria

Il panorama normativo di riferimento, dunque, è diventato ancora più stratificato e complesso, ed esserne rispettosi richiede l’implementazione di una vera e propria strategia comunicativa e – ancor prima – l’adozione di un protocollo di verifica interno (ed esterno) della sostenibilità applicata, per i quali sarà indispensabile rivolgersi a consulenti legali e di comunicazione, con cui lavorare in team

 

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